da Angela D'Antoni : L'ambiente letterario-artistico dell'Ottocento Catanese ed il pittore Antonino Gandolfo. Tesi di laurea - 1967 

Ritornato a Catania (dopo gli studi intrapresi a Firenze [n.d.r.]), incerto tra uno stile di derivazione neoclassica e il nuovo consiglio dei macchiaioli, si trovò in un ambiente che, dominato da tendenze sociali, credeva alle finalità didascaliche dell'arte. Le amichevoli discussioni con Verga e con Capuana lo trassero al verismo e al quadro sociale ed è perciò che le tele di questo periodo hanno per soggetto la gente della strada, gli umili in perpetua lotta per l'esistenza, i vinti che, pur avendo osato, sono alla fine travolti dal turbine che su di loro incombe.

Prostitute, ciechi, fanciulli abbandonati e fisicamente tarati, vecchi e vecchie malinconicamente rassegnati, usurai, mezzane: ecco i tristi eroi dei suoi primi quadri. Occorre qui ricordare che il pittore in quel tempo abitava in Piazza Spirito Santo (al numero 18) che sembrava dividere due mondi: da un lato la città signorile, ligia alla morale, con la sua massima arteria, dall'altro il vasto quartiere di S. Berillo sudicio ed indisciplinato, dalle strade strette e buie, dai tuguri senz'aria e senza luce, dalle osterie, anticamera della prigione e dell'ospedale, dalle case protette da persiane inchiodate, asilo di sventurate.

Le idee del tempo, il verismo affermatosi nell'arte, l'amicizia con gli antesigniani di questo movimento, lo spinsero irresistibilmente verso il triste mondo ai cui margini viveva e che gli pullulava attorno. In queste prime tele si sente la generazione di Victor Hugo, si sente l'influenza di Mario Rapisardi che fulminava i tiranni, avvicinava i miseri, piangeva del loro pianto e annunziava agli uomini una nuova era di giustizia e libertà. E vi sono donne che lacrimano, ciechi che invano cercano la luce, laceri suonatori ambulanti, bimbi dai grandi occhi tristi. In tutti questi quadri è sempre la stessa sete di giustizia, lo stesso grido soffocato di ribellione contro la società che non si cura dei poveri, intenta nella sua corsa verso il piacere e la ricchezza.

Tra le tele di questo primo periodo ricordiamo l'Usuraia. Una vecchia volgendosi verso la luce del sole guarda attentamente un oggetto d'oro. Di fronte sta una giovane donna che attende con ansia il responso della meggera, più in là un bimbo, che né l'ingorda brama della vecchia dal cuore aperto al solo affetto dell'oro, né il dolore della giovane donna turbano, guarda distrattamente. Ad una parete è appeso un crocefisso che l'usuraia tiene a mettere in evidenza, quasi a legalizzare la sua turpe attività. Tra le figure ci attira di più quella di cui vediamo solo lo scialle che lascia indovinare una povera donna la quale, venuta per lasciare qualche oggetto, se ne torna triste senza aver potuto ottenere nulla, per lo scarso valore dell'oggetto stesso. Noi non vediamo il volto della donna ma lo scialle ha una piega che sembra contenere il penoso brivido della sventurata, la cui figura, pur ignorandosene l'espressione del volto, è quella che vive più delle altre.

Nell' Espulsa la donna accasciata dietro la porta chiusa, raccoglie sul viso stanco tutto il dolore umano, la paura dell'ignoto, un'intima esigenza di pace. E' sola, intorno non ha altro che i suoi poveri cenci e il peso della colpa e dell'abbandono.

In Tentazione un altro aspetto del mondo dei poveri: una donna, costretta dalla miseria, sta per essere sedotta dalla promessa del compenso. In basso, sulla destra, una vecchia, forse la madre, assiste impassibile e rassegnata alla scena.

Queste, alcune tele del primo periodo che mostrano dei motivi comuni anche a quelle (Musica forzata, Per via, La Cieca, ecc.) che, pur essendo posteriori, sono sempre ispirati a temi sociali. I motivi su cui il pittore regge la sua ispirazione in questi primi lavori sono la moda del quadro sociale, che si inseriva bene nelle tendenze letterarie e artistiche del tempo e nei movimenti di rivendicazione sociale degli ultimi anni del secolo e la minuzia del disegno.

A poco a poco però, procedendo il pittore sempre più nella conquista di una compiuta espressione artistica, il virtuosismo del disegno e dei particolari, di cui si era compiaciuto nell'Usuraia, cederà a forme in cui il disegno - non più fine, ma mezzo - vivrà solo per il colore ed insieme diranno la realtà interiore intuita dall'artista.[...] A tragicità di contenuto il pittore fa corrispondere una tragicità di fattori espressivi avvolgendo le sue figure di mistero e di ombre, solcate a volte da guizzi luminosi. Il suo è un canto elegiaco in cui la macchia, non di colore ma di ombra, assume tutta la responsabilità di esprimere la commozione e l'angoscia. E l'assume troppo, sì da rendere offuscati, non chiaroscurati i quadri e da far pensare ad un' intuizione pittorica rimasta nel primo lampeggiare, ad immagini non poste del tutto a fuoco.[...]

Musica forzata, La cieca sul cui volto mesto si legge un vivo anelito alla luce, ed altre opere (La Maddalena, Ave Maria, Per via, Una madre), che eseguite dopo il 1880 completano il ciclo ispirato a temi sociali, mostrano una minore imperfezione nel paesaggio dall'aspro naturalismo delle tele precedenti a forme più artisticamente compiute.[...]

Queste opere che precedono il periodo definitivo e completo dell'arte sua lo hanno fatto avvicinare al Verga per il senso rispettoso verso i vinti e per il distacco freddo ed obiettivo dinnanzi al soggetto. L'accostamento cogli nel segno per la prima parte ma non certo per la seconda né distaccato ed obiettivo fu il Verga, né distaccato e obiettivo il Gandolfo ma entrambi istintivi e vivi nel riflettere i caratteri della loro gente.

Chiuso nella sua Catania, amò dedicarsi anche agli studi letterari. "Io ricordo - scrive G.I. Nicotra su "L'Unione" del 27 marzo 1910 - d'averlo visto spesso con de' zibaldoni per le mani, passeggiare sulla terrazza della sua villa di Cannizzaro, leggendo o ripetendo a voce alta passi di scrittori insigni d'ogni letteratura e d'ogni epoca. Egli raccoglieva dalle larghissime letture fatte, massime, sentenze e pensieri e, a volte, nelle conversazioni fatte con gli amici, faceva tesoro di quella geniale suppellettile acquisita entro il cervello".[...]

A questo punto si impone una considerazione di una certa importanza. Se fra le opere ispirate a temi sociali abbiamo potuto parlare di motivi comuni, non così possiamo fare per la produzione successiva. Questo autodidatta, sempre lontano dalle formule delle accademie e dei preconcetti di scuola non permette allo studioso di seguire, nel periodo centrale della sua attività, lo svolgimento del suo spirito creatore. In genere negli artisti si intuisce, attraverso uno schizzo o un disegno, l'opera definitiva e si può seguire lo sviluppo della intuizione primitiva, cioè l'intero processo artistico per cui da una prima impressione si passa al quadro definito in ogni particolare. "In Gandolfo - dice il Maganuco - niente di tutto ciò; niente preparazione, niente spunti, orientamenti stilistici da svolgere  e perfezionare: l'artista catanese cambia stile - cioè tecnica, cioè mezzo immediato di creazione - senza opere di transizione."

Le sue opere sgorgano da un’intuizione che spesso non vuole evolversi ed egli cerca sempre nuove vie per realizzare i suoi fantasmi d’arte  chiedendo alla tavolozza impasti non dettati da alcuna scuola. Certo se il Gandolfo si fosse prefisso, per dir così, una propria regola d’arte capace di dare un’impronta unica e personale a tutta la sua produzione, avrebbe fissato meglio ed in modo più armonico e duraturo i motivi della sua arte. Invece nella sua opera è un turbinoso variare di stile, l’artista muta continuamente, da un quadro all’altro si abbandona o si trasfigura per cui, a volte, dopo uno studio mediocre ecco apparire l’opera d’arte artisticamente valida e compiuta in sé. La sua arte, anche se discontinua e ineguale, si innalza a volte su quella dei conterranei perché egli con i ritratti e con i suoi studi riesce a penetrare l’intimo dei protagonisti delle sue tele, “fissandone col tocco di luce la massa fisica del volto e l’attimo psichico intimo, essenziale, eterno” (E. Maganuco, La pittura dell’Ottocento catanese, “Catania”, Rivista del Comune n.6, 1933).

Chi si accosta alle sue tele e al loro continuo variare di stile, facilmente avverte un enorme divario tra la sua produzione artistica e la sua vita, vissuta entro un ritmo comune, di gentiluomo dell’ultimo Ottocento. […]Nel ritratto del Prof. Tomaselli la figura dell’illustre clinico, vanto del Siculorum Gymnasium, è profilata con tratti nitidi e sicuri in una gamma robusta di colori, ben adatta alla linea del profilo. Il volto austero e lo sguardo stanco sono soffusi da una leggera luce, quasi un riflesso del pensiero dell’uomo, e parlano di una vita spesa nella ricerca scientifica che ha reso pallida l’ampia fronte.

Il Ritratto di Monaco eccezionalmente datato (1889) e firmato (delle tele del Gandolfo poche sono firmate, pochissime datate) è il frutto di un’arte ormai matura. La figura possente appare solida nel disegno, viva nel colore, animata nelle espressioni. Il personaggio, dalle ciglia leggermente aggrottate, ha uno sguardo indagatore e, in un certo senso, imbarazzante. La luce, giocando sapientemente con l’ombra, illumina la parte estrema della guancia sinistra giungendo fino al grasso del collo. Qua e là sul volto sono segnate varie pieghe, potenti quelle degli angoli delle labbra e all’attaccatura del naso. La figura ritratta appare estremamente viva e piena di salute perché l’autore, grazie alla sua sicurezza di colorista, è riuscito a darci quasi l’idea del sangue che scorre sotto la pelle. […]

Il Gandolfo amò fissare sulle tele la bellezza muliebre di cui sentì profondamente il fascino. Narra S. Fiducia su "La Sicilia" del 22.10.1955 (Passeggiate sentimentali: Quadri di A. Gandolfo) che quando gli accadeva di imbattersi in una bella donna, troncava subito il suo discorso qualunque esso fosse "e lo spirito di lui convergeva verso il meraviglioso spettacolo. Difatti 'Oh, meraviglia' lo udivo mormorare e un fremito sentivo discorrere nel braccio appoggiato al mio, ed egli rallentava il passo quasi arrestandosi, e sotto la falda del cappello, piegata fino a lambire le sopracciglia folte, vedevo sfavillare gli occhi che aveva grandi, quasi bovini. Fosse una signora in cappello o una popolana in scialle, in lui il contenuto estetico era unico; propendo però a credere che per la popolana fosse più intenso, giacché la cornice dello scialle catanese, oggi un ricordo, aggiungeva fascino al fascino...".

Ritrasse la moglie in parecchi ritratti di cui ricordiamo quello ovale, di piccole dimensioni, che si può vedere presso gli eredi Bianca e l'altro, il più noto fra tutti, in cui la moglie appare seduta su una sedia rivestita di damasco giallo in una posa quanto mai naturale. Forte colorista egli riesce a fondere in quest'ultimo ritratto, espressione di un artista ormai maturo, delle tinte difficili, scherzando con quegli ostacoli che la tavolozza restia presenta sempre al più esperto pittore. Qui gioca con il giallo vivo della poltrona, che se mal dominato avrebbe portato sulla tela una nota stridente, riuscendo a dare al quadro un colore libero alfine dalle ombre e una gaiezza che è di amore. Ombre, luce e colore si armonizzano perfettamente facendo sentire il caldo fremito del corpo e lasciando sprigionare un giocoso senso della vita. 

Se in questo quadro abbiamo detto il colore la più valida conquista del nostro pittore, non possiamo non ammirare la sapiente linea dei suoi disegni in cui con pochi tratti effigiò i suoi amici: Verga, Capuana, Martoglio. Soprattutto la testa di Verga è il capolavoro di un maestro di disegno. Bastarono pochi tratti al Gandolfo per fissare il più somigliante ritratto dello scrittore catanese i cui lineamenti sono resi con un nervoso ma sicuro "virgolato" che rende egregiamente la trasparenza dei grandi occhi pensosi, la profondità delle pupille, la molle linea della bocca ombreggiata dai folti baffi spioventi.

A Mario Rapisardi, oltre che un disegno, dedicò una tela che lo ritrae in piena foggia rivoluzionaria, con lunghi capelli e con baffi spioventi ai lati delle labbra di cui si intravede il colore rosso vivo. Un rivoluzionario solo nell'aspetto, i cui liquidi occhi tristi imparentano ad uomini che non credono più in alcuna rivoluzione.[...]

Il Gandolfo amò spesso fermarsi al bozzetto: balenatagli l'idea pittorica egli la imprimeva sulla tela tralasciando la completa esecuzione dello spartito di cui aveva suonato, per dirla con il Croce a proposito della macchia di Imbriani, "la prima battuta" ed evitando che avvicinandosi sempre più alla macchia , questa smarrisse parte del suo vigore e lo smarrisse del tutto. Afferma infatti l' Imbriani che "il primo getto di qualsiasi opera d'arte è più potente rivelatore dell'artista e del suo pensiero, che non il lavoro limato e compiuto.... l'esecuzione inforsa quella prima robusta percezione: l'attendere genera spesso confusione" (B. Croce, Una teoria della "macchia").

Avviene così che il Gandolfo riesce bene negli studi in cui si è astenuto dallo "sbrogliare la macchia" fermandosi all'impressione  avuta come in un lampo nella prima ispirazione. Tra questi studi ricordiamo la Ragazza piangente che presenta una testa di donna esprimente un sentimento supremo di profonda malinconia nello sguardo e di angoscioso dolore nelle labbra socchiuse. L'angoscia del personaggio si fa tutt'uno con la densa ombra che l'avvolge in cui si perde il volto stesso della donna che si nasconde a noi, quasi a volere restare sola con il suo dolore. Il Gandolfo regalò questo studio a Mario Rapisardi che ricevendolo gli scriveva: "Al lavoro ho assegnato il posto d'onore nel mio salotto, è sul cavalletto che Ella sa. E' addirittura un capolavoro così per la delicata e appassionata figurina, come per la strana e potente originalità della dipintura". [...] La Ragazza piangente è stata avvicinata da qualcuno alla maniera del Cremona a cui il Gandolfo, con il dovuto ridimensionamento, un po' si apparenta in qualche studio per lo stile sfatto e vaporoso, per il gusto della espressività psicologica e per l'abile gioco delle penombre che non impegna il pittore a scoprire né la vita dei colori, né quella delle linee. Ma il Gandolfo, chiuso nella sua città, poté avere conoscenza delle varie correnti nazionali solo attraverso le notizie dei giornali e le riproduzioni delle riviste per cui difficilmente poté immettere nella sua arte motivi derivati da ambienti lontani materialmente e spiritualmente dal suo.

Quanto poi all'affermazione dei rapporti del Gandolfo con l'impressionismo da qualcuno avanzata, mi sembra dovuta alla confusione che qualcuno ha fatto tra la maniera degli impressionisti e quella degli scapigliati lombardi, al cui mobile pittoricismo a volte egli si avvicina negli studi muliebri. Certamente l'opera gandolfiana non ha niente in comune con la pittura  all'aria aperta degli impressionisti e con il loro studio del gioco luminoso, dei riflessi e dei mobili effetti dell'atmosfera e se proprio si vuole si può parlare di impressionismo solo nel senso più lato del termine e solo in alcuni studi in cui il Gandolfo rende le cose secondo la propria intuizione senza preoccuparsi della loro realtà obiettiva e i corpi non secondo la loro struttura anatomica ma secondo la loro apparizione improvvisa. Ma avvenendo ciò solo pochissime volte, non si giustifica l'accostamento al movimento francese, massima espressione dell'ottocento pittorico europeo. In verità gli mancò proprio il contatto con l'arte del suo tempo e ciò non sfuggì a Luigi Capuana che nel Giornale d'Italia del 6.10.1907 nel suo articolo Il progresso della Sicilia nell'Esposizione Agricola così disse:"I lavori di Antonino Gandolfo dal quadro al ritratto, dalle mezze figure agli studi, fanno vedere con quanta insistenza di tentativi, di ricerche, con quanta varietà di ispirazioni si sia svolto il suo ingegno di artista. Gli è mancato il contatto vivificatore con l'arte contemporanea; è rimasto un ricercatore coscienzioso, che spesso indovina ma che non è mai contento, e perciò lavora un po' indolentemente, quasi da dilettante, ma da dilettante artista...".

Negli ultimi tempi della sua attività il Gandolfo diede una pittura più gaia, libera alfine dai toni scuri e volta a forme più moderne di realizzazione artistica. Questo nuovo orientamento della sua arte è testimoniato dalle tavolette con paesaggi interni luminosi che ho potuto vedere presso il nipote, prof. Antonello e da uno Studio d'uomo. Si fa fatica a riconoscere il pittore de L'Usuraia e de La Cieca, notandovisi solo qualche motivo abituale e parlando tutto il resto di una svolta nella sua pittura, una svolta avvenuta forse un po' tardi ma pur sempre onorevole per un pittore che, se si eccettua la breve soste a Firenze del 1861, rimase sempre lontano da un vero ambiente artistico.

Questo pittore che espose con successo alla Mostra di Belle Arti nella II Esposizione Agricola Siciliana del 1907, e a cui fu dedicata una intera sala del Castello Ursino nella Mostra retrospettiva della Pittura Catanese nel 1939, parve un misantropo dimenticato, per quanto fosse confortato dal'ammirazione del Carducci, del Verga e del De Roberto che presentando alcune sue tele esposte alla mostra del 1907, così scrisse: "A questa nobile inquietudine, a questa dolorosa vibrazione dinnanzi  agli spettacoli della miseria e del dolore, e alla maestria della tecnica per riprodurre la forma umana in ciò che essa ha di più espressivo, nel volto, il Gandolfi aggiunge spesso un'altra qualità tutta sua: uno stile, un magistero, un mistero per virtù dei quali alcuni suoi episodi pittorici di ambigua significazione, suggestivi come musiche, sembrano distaccati da non si sa quali antiche tele di vecchi gloriosi maestri" (F. De Roberto, La mostra di Belle Arti. In Albo illustrato sulla II Esposizione Agricola Siciliana, Catania 1908, p. 69).


La cieca - riproduzione in b/n pubblicata su La Siciliana, n. 11-12 del 1923

Nel concludere diciamo che la produzione gandolfiana, difettosa nella sua - pur tanto esaltata - prima maniera raggiunge, nel periodo centrale, un'espressione che, imponendosi una critica indulgente nel giudicare un ambiente assolutamente privo di scuole, maestri e tradizioni artistiche, non esitiamo a definire validamente personale. Negli studi e nei ritratti infatti il nostro pittore mostra una tavolozza varia di accordi che si arricchisce di chiarità diffusa nel Ritratto del medico Tomaselli, di sintetiche ombre negli Studi muliebri , di tonalità fiamminghe nel Ritratto di monaco, di ottimi effetti di luce nella Testa d'uomo, di caldi riflessi sensuali nel Ritratto d'attrice. Diceva il Di Bartolo nella Esposizione del 1907, esprimendo i voti di Verga, di De Roberto e di Capuana:"Ricordare gli artisti che con amore di intelletto lavorano per il decoro della patria, è opera altrettanto civile, ed arricchire una sala di tutte le opere degli antichi catanesi sarebbe di incoraggiamento e sprone alla gioventù. Necessario si rende quindi l'acquisto delle migliori tele del forte colorista Antonino Gandolfo".[...]

Abbiamo cercato di presentare l'opera di Antonino Gandolfo con animo sgombro da presunzione campanilistica che, esaltando immeritatamente, riesce più dannosa di una critica corrosiva, convinti con il Verga che "fra i migliori artisti catanesi Antonino Gandolfo segnò alta la sua personalità".

 

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