da L. Gandolfo: Cenni sul pittore Giuseppe Gandolfo - "Rivista del Comune di Catania" sett - ott 1931

Del pittore Giuseppe Gandolfo esistono nel nostro Museo civico due tele: in una è raffigurato Giacomo Di Bartolo, l'uomo che ebbe a Catania tanta popolarità nei moti del 1848 e del 1860; l'altra rappresenta un refettorio dove gli amici dell'artista, travestiti da monaci, stanno a guardare la scarsa pietanza con visibile afflizione, mentre quattro di essi, ginocchioni nella sala, mangiano in compagnia dei gatti e di un cane che si contendono il cibo. Il quadro piacque tanto (le persone travestite da padri cappuccini erano ben note in città) che il Comune lo acquistò nel 1836 per il prezzo di 30 ducati pari a cento once siciliane. Per capire oggi lo spirito di quello scherzo che era in verità una vendetta allegra del pittore, bisogna ricordare un'altra burla del genere. Tra il Gandolfo che si era lasciato vincere dalla pigrizia e i suoi amici si era stabilito questo patto, o egli entro un dato periodo avrebbe ripreso il lavoro o avrebbe offerto loro un lauto pranzo. Trascorso il termine fissato il pittore mantenne la promessa: dipinse una volgarissima taverna, la Cantina del Presepio, v'invitò - diciamo così - col pennello tutti i suoi amici, rappresentandoli alla foggia dei facchini che erano i clienti di quel locale, e nell'atto di gozzovigliare. La somiglianza era così perfetta che ciascuno si poté riconoscere sotto quei panni. Il pittore vi aveva dipinto una degna venere del luogo, corteggiata da tutta la brigata. Il quadro, non ancora terminato, scomparve dallo studio del Gandolfo, sottratto appunto dai suoi amici. Il pittore offrì, sempre con i colori, un secondo pranzo e punì gli autori del furto mettendoli in quella umiliante condizione nella sala del refettorio, dove si ritrasse pure lui, ma senza tonaca fratesca.

Se la testa del Di Bartolo ci dà misura del valore del ritrattista, la scena del refettorio è una testimonianza del carattere bizzarro dell'uomo che - secondo quanto riferisce un suo biografo - fu "piacevole e giocondo nelle brigate". Ma oltre alle due celie ricordate, abbiamo persino nei ritratti elementi ironici. Di parecchie simili chiose si è perduto il gusto non potendo noi oggi comprendere interamente il significato. Non sempre però il Gandolfo ricorreva a questi mezzi per fini burleschi, a volte se ne giovava per mostrare, insieme con le fattezze della persona, predilezioni sentimentali o culturali di essa. Se i dettami della scuola neoclassica lo costringevano ad una impassibile e statuaria riproduzione del vero, il suo temperamento cercava uno sfogo e faceva la sua apparizione in quei commenti alla persona raffigurata. Deve fare il ritratto del giudice Ignazio Rapisardi e lo rappresenta nell'atto di esaminare le pratiche di una causa immaginaria tra il pittore e il suo amico Mirone. In un foglio si può leggere scritto in caratteri minutissimi qualche articolo contrattuale che avrebbe dato luogo alla lite. Probabilmente in quel tempo il Mirone si era spazientito col pittore per un troppo prolungato ritardo nella consegna di un lavoro. Il pittore aggravò sulla tela la situazione, riuscendo così a rabbonire l'amico. Col quale le relazioni, benché affettuosissime, non dovevano procedere sempre serenamente se una volta il Gandolfo, incaricato dal Mirone di restaurare un quadro sacro, dov'era il volto di Giuda dipinse quello di lui. Nel ritratto del Costarelli il Gandolfo raffigurò anche se stesso, nel vano di una porta, vestito da frate chiedente l'obolo. Voleva il pittore rammentare al Costarelli i suoi doveri verso di lui? Se è così, nessun creditore sarà stato mai tanto presente agli occhi del debitore.  Per varie iatture (vedi Vita) poco tempo poté trascorrere nell'ambiente fiorentino nel quale si distinse tanto da meritare il favore della corte e le lodi del Benvenuti, uno dei maggiori maestri dell'epoca. 

Nella Sicilia di allora egli rimase estraneo alle tendenze che altrove andavan maturandosi come reazione ad una scuola importata d'oltre confine, con lo spirito orientato verso i canoni neoclassici e dominato dalla impressione dei capolavori ammirati e copiati nelle gallerie fiorentine.

L'influsso accademico è evidente nei lavori del Gandolfo, ma che questo pittore possedesse doti istintive nel cogliere e rappresentare il vero con accenti personali, è dimostrato da molti ritratti e anche dall'opera giovanile, il busto di Domenico Tempio, che ha pregi evidenti di modellazione.

Il periodo dell'attività catanese del Gandolfo è di circa un trentennio, periodo fecondo anche se interrotto da qualche pausa di pigrizia biasimata appunto dagli amici che provocarono quegli scherzi di cui s'è parlato. Un suo biografo, il Brancaleone, ritiene che il numero delle opere gandolfiane si aggiri intorno a 250. Tra esse vanno comprese le copie, i quadri di soggetto sacro, qualche paesaggio e molti ritratti, per i quali ultimi si può dire che il Gandolfo sia stato il pittore degli uomini eminenti e dell'aristocrazie catanese del suo tempo: dall'avo del Bellini e dal Bellini stesso alle figure più rappresentative della cultura, dalle dame ai gentiluomini delle migliori famiglie patrizie di Catania.

Della serie delle figure ragguardevoli del tempo ci restano i ritratti del naturalista Giuseppe Gioeni, dell'economista Salvatore Scuderi, che alla Biblioteca Comunale di Palermo provennero dalla collezione degli uomini illustri siciliani di Agostino Gallo, di Emanuele Rossi, dotto giureconsulto e ardente promotore di liberalismo. I ritratti del duca Francesco Paternò di Carcaci, autore di una apprezzatissima descrizione delle cose notevoli di Catania, del matematico Lorenzo Maddem, del chimico Giuseppe Mirone e del poeta Tempio fanno parte della raccolta del nostro Ateneo. In molti di questi lavori la freddezza accademica è spesso superata dalla forza espressiva. Non è opportuno insistere su tale enumerazione, ma conviene pur fermarsi sulla testa vigorosa, di cui s'è fatto cenno, di Giacomo Di Bartolo, dove è resa con tocco largo e virile tutta la risolutezza dell'uomo che seppe dominare la folla in ore perigliose.

Dei ritratti familiari ricordiamo quello del nipote Antonino, l'autore della marcia funebre eseguita a Catania in occasione dell'arrivo delle spoglie mortali di Bellini, della popolare sinfonia Inaugurazione e di tre opere; quello del fratello Francesco che studiò medicina a Parigi e a Firenze, esercitò la professione a Napoli e scrisse un libro sul colera, il morbo che doveva poi ucciderlo. Delicatissimi accordi di tinte presenta il ritratto della cognata condotto con amorosa cura dei particolari; quello della nipote Clementina, in manto azzurro, piace per il malinconico candore del volto.

I ritratti che il Gandolfo dipinse per l'aristocrazia, e che ancora adornano le case dei signori catanesi, appartengono al periodo della maturità della sua arte e del suo ingegno. Furono eseguiti in gran parte nel ventennio compreso tra il 1834 e il 1854. Nelle figure femminili il nostro pittore raggiunse un'eleganza che non fu sempre di maniera. Si veda il ritratto di Ferdinanda Grifeo di Partanna, duchessa di Carcaci, che per la nobile grazia dell'atteggiamento e la suggestiva armonia dei colori resta una delle più felici creazione del Gandolfo. Altre tele che meritano particolare menzione sono quelle che raffigurano Eleonora Guttadauro Emmanuel, principessa di Carcaci; Lucrezia Tedeschi principessa di Biscari; la baronessa Sisto; Francesca Gravina, principessa di Maletto; Luisa Lella Bertuccio; Anna Bonanno Zappalà.

Segnaliamo infine i ritratti del duca Mario Paternò di Carcaci; del barone Mannino; del barone Enrico Grimaldi di  Serravalle, il quale alla morte del Gandolfo chiese alla famiglia la tavolozza per ricordo del suo maestro di pittura, di Roberto Paternò, VIII principe di Biscari, uno dei primi cultori a Catania della musica strumentale. Tra le opere più belle è da annoverare La famiglia Paternò Castello Guttadauro d'Emanuel per la disposizione delle cinque figure e per la vivacità del colore, e il ritratto di Maria San Martino dei principi di Pardo, duchessa di Carcaci.

Nelle tele migliori di questo genere il pittore si servì spesso della lucentezza dei rasi e della sfarzosa varietà cromatica non come elementi decorativi ma come mezzi espressivi della leggiadria e della venustà delle dame, trovando una perfetta rispondenza tra la sua visione neoclassica, la sua maniera corretta e levigata, ed il soggetto da ritrarre. 

Ma le virtù più vigorose dell'artista si riscontrano frequenti nei parecchi autoritratti, due dei quali fanno parte della raccolta Bianca mentre il terzo è a Firenze, e il quarto a Palermo (Biblioteca Comunale - Collezione Uomini illustri siciliani). Il Gandolfo dipinse anche quadri di argomento religioso e altri di soggetto paesistico. Ammiratissimi dai contemporanei ed elogiati dai giornali del tempo furono L'Etna illuminata dal sole nascente e L'eruzione del 1852, nel quale ultimo lavoro, oltre alle figure di contadini che abbandonano le case, si vedono due persone intente  a disegnare quella scena d'orrore; in uno di essi il Gandolfo volle indicar se stesso per far comprendere che la scena era stata tratta dal vero.

La conclusione non può mirare a un giudizio complessivo sulla personalità artistica di questo pittore, di cui ora abbiamo voluto raccogliere documenti e testimonianze, e rintracciare opere sparse qua e là anche fuori di Catania, nella speranza che altri possa fare una compiuta valutazione dell'opera dell'artista che fu anche il primo maestro dei pittori Giuseppe Sciuti e Antonino Gandolfo e dell'incisore Francesco Di Bartolo, e che nella storia della pittura siciliana non ha ancora il posto che gli spetta.

 
VITA GALLERIA