Salvator Quattrocchi: La luce nella forma - S. P. ITES Editore, 1973 - pagg. 197-201

 

Ottocento siciliano: Antonino Gandolfo

 Conobbi il nome di Antonino Gandolfo, quando ero ancora adolescente e giravo per a città di Catania con l'idea segreta di fare il pittore. Fu mio padre che mi disse un giorno:
- Ho avuto l'occasione di vedere dipinti di grande interesse. Si tratta di un artista che dipinge la figura in modo eccezionale. Soprattutto le mani di quelle sue figure mi hanno colpito.

Mio padre, per caso, si era recato nell'abitazione degli eredi del pittore già scomparso da parecchi anni, ed aveva insistito con me per ritornare in casa Gandolfo, ora, demolita, al numero diciotto di piazza Spirito Santo.

lo non andai, probabilmente perché i ragazzi rimandano quasi sempre su certi problemi di cultura. Vidi, assai dopo, rientrato per breve tempo dai miei studi presso l'Accademia di Belle Arti di Roma, le opere del Gandolfo in una raccolta dell'ottocento, che figurava, con ricca avvedutezza ed armonica disposizione, a Catania, nel Castello Ursino.

Mio padre aveva ragione. I dipinti dicevano chiaramente della potenza espressiva e del travaglio umano di quelle figure. I volti erano spesso in penombra e la luce colpiva, come un bagliore improvviso le parti laterali di quei confini carnosi, rendendo il soggetto un motivo vivo, plastico, diverso da tutta la tecnica figurativa degli altri artisti dell'ottocento. Così, il problema dei «macchiaioli toscani», veniva trasferito, con una ampiezza più eloquente, nella figura umana non vista più in proporzioni riassuntive e sintetiche per la stupenda innovazione della macchia del colore alla Fattori, ma con la conquista, tutta gandolfiana, di una superficie più ampia e quindi maggiormente messa a fuoco.

Chi era dunque Antonino Gandolfo?

Era nato a Catania il ventisette febbraio del 1841 ed aveva preso i primi solidi insegnamenti e l'amore per il colore, dallo zio Giuseppe Gandolfo che, oltre ad essere stato maestro di Giuseppe Sciuti, aveva avuto il ruolo di eccellente ritrattista nell'aristocrazia catanese.

Ma la vera e risolutiva preparazione l'aveva compiuta a Firenze  nello studio di Stefano Ussi, già famoso per la sua  «Cacciata del duca di Atene». Formativa così era stata la sua educazione artistica nell’Italia del nord e specialmente in quel settore dove i macchiaioli toscani influirono non poco su quella sua visione d’impasto coloristico e di sintesi chiaroscurale.

Ritornato nella sua Catania, confortato dalla costante amicizia col poeta Rapisardi, col Capuana, col Verga e col De Roberto, si orientò verso una « pittura sociale », dove i temi della misera gente e dei diseredati sono ritorni continui ed ispirati nel suo mondo artistico che lo faceva chiudere in se stesso con una sentita e profonda commozione.

Ne attestano questa sua predilezione, che diventa poi stilistica senza però neppure rasentare il clima retorico, i suoi primi dipinti di quel tempo: « L'usuraia »; « La prostituzione »; « Tentazione »; « L'ultima moneta »; « I miserabili » e « L'espulsa » Che fecero affermare parole di elevato elogio al noto critico d'arte Giacinto Stianelli.

 Nell'« Usuraia » una povera donna attende, con accorata malinconia, da una perfida megera, la sentenza per la vendita del suo scialle. E' una donna già provata dal dolore, che, alle porte dell'inverno, conoscerà ancora il freddo e probabilmente chiuderà con una più triste disavventura, il capitolo della sua vita.

 Neì « Miserabili » è sempre una povera donna ripudiata che prega dinanzi alla miseria dei propri figli consumati dalla fame e dal patimento.

Sono tutti personaggi appartenenti alla povertà; povere anime che cercano di aggrapparsi a qualcosa ma che tuttavia vengono travolte dal loro terribile destino; sono figure che scompaiono come le foglie d'autunno ma che lasciano un profondo senso di umanità nel cuore dell'osservatore. Sono figure senza speranza, senza fiducia alla vita, senza il bagliore di un prossimo rifiorire. Figure che, scese in basso, non hanno più la forza di risorgere e di risollevarsí; figure che accettano, con la rassegnazione dei vinti, il loro inesorabile destino.

L'Artista continuerà così - su questa direttiva – anche dopo il milleottocentottanta. « Musica forzata »; « la Maddalena »; « L'Ave Maria »; « La madre » e « La cieca » piangono le stesse lacrime con una sonorità ancora più corale e più determinante. Qui, il corpo del colore, si è fatto più robusto e la tecnica più fluida.

Antonino Gandolfo, ad ogni modo, bisogna inquadrarlo nel panorama artistico del suo tempo per poterlo comprendere e meglio apprezzare. Bisogna inquadrarlo nel tempo di « Rosso Mal pelo »; di « Lacrimae rerum »; di « Vagabondaggio »; di « Don Candeloro e C »; figure ed episodi che il Verga fissò in pagine indimenticabili.

Probabilmente la pittura sociale ebbe il suo declino con l'apparizione degli « impressionisti » che non mirano più al soggetto ma ai riflessi di toni di colore. Il maggiore merito di Antonino Gandolfo dunque va ritrovato oggi nei suoi ritratti con la loro potente efficacia, con il loro giuoco plastico, con la freschezza di una umanità che non può essere giudicata sorpassata.

I ritratti infatti o le figure isolate - e dunque non inquadrate nella preoccupazione del soggetto - sono le cose più significative del nostro Artista. Quel modo di comporli, di risolverli con quella costante macchia di penombra centrale sul volto, è decisamente da indicare fra le caratteristiche dominanti di questo pittore solitario e generoso.

Guardare bene il « Ritratto di monaco » - uno dei diciotto dipinti affidati dalla famiglia Gandolfo alle cure del Museo Civico presso il Castello Ursino di Catania - è un sicuro modo di intendere e di capire il punto di arrivo dell'Artista. La luce piomba dall'alto e domina il volto del religioso lasciando al centro la tipica penombra magica che pur ci rivela il carattere e la fierezza del soggetto.

Basterebbe questa sola opera per fissare i confini della grandezza di questo magnifico ottocentista. Ma, purtroppo, anche noi siamo costretti a parlare di queste opere attraverso il ricordo! Da oltre dieci anni questi dipinti sono conservati unitamente ad altri - nei magazzini del nostro Castello svevo. Sono come le « posate d'argento » ben nascoste nelle case di quei borghesi che rimandano sempre la possibilità di usarle!

E' mai possibile che queste opere dell'Ottocento ed altre anche del Novecento dovranno essere soltanto coperte dalla polvere dei magazzini? E non è assai triste constatare che nessuno si preoccupi - anche con un gesto conciliante - di mostrarle ai visitatori, in verità, sempre meno numerosi perché non attratti da alcuna curiosità o da alcuna sollecitazione?

Ma vale proprio la pena di dedicare tutta una vita all'Arte per poi sapersi costantemente rinchiusi in un magazzino e dunque destinati ad essere dimenticati? E' proprio questo il modo di ripagare i figli migliori?

Non certo questo destino meritava Antonino Gandolfo quando dipingeva, pieno di fede e di ardore, nel suo studio collocato in un grande salone al quarto piano interno della sua casa in piazza Spirito Santo o nella sua bella casa di Cannizzaro, dove passava parecchi mesi dell'anno.

Uno dei suoi quattro figli, Antonino junior, scrittore forbito e pensoso, ci ha detto, recentemente a Roma, che aveva otto anni quando si spense l'Artista - nel mìllenovecentodieci - e che nel suo ricordo è rimasta incancellabile l'esclamazione del padre per la morte del Carducci: « E' morto un grande poeta; il mio grande amico della giovinezza passata a Firenze »!

Chissà quante ansie e meditazioni in quegli anni fiorentini!

Poi venne il produttivo isolamento nella vita catanese dell'ottocento, con l'amicizia di Martoglio, di Capuana, di Di Bartolo, di Sciuti, dell'attrice Giacinta Pezzana e di tutta la luminosa schiera degli artisti di quel tempo.

Ora, da oltre un decennio, le sue migliori opere sono segregate nei magazzini del Castello Ursino di Catania! Non è già durata a lungo questa ingiusta espiazione?