Enzo Maganuco

Il pittore Antonino Gandolfo

SICILIANA – Pubblicazione mensile del circolo artistico di Catania - Anno I, n. 11-12 – Nov-Dic 1933, pag. 15-26

 

 

A Enrica

 La vita di Antonino Gandolfo si svolge entro un ritmo comune, dominata da una calma esteriore incomprensibile a chi - penetrando le opere del pittore catanese - voglia risalire dalle forme artistiche, dalle espressioni pittoriche delineanti la vita dello spirito, alla vita materiale vissuta dall'artista a Firenze e a Catania. Chi si accosta infatti alle sue tele, sente un divario strano fra la vita che l'artista nelle due città svolge compassata, con uniformità seria che è dignità e compostezza, e il turbinoso variare di stile, d’ispirazione da quadro a quadro, anche se questi sono vicinissimi e conclusi entro uno stretto periodo di tempo che dovrebbe caratterizzarne una tonalità espressiva simile, una caratteristica di stile unica e definitiva.

Poche date infatti possono inquadrare interamente i fatti notevoli e decisivi della sua vita esteriore di gentiluomo dell'ultimo ottocento: moltissime invece ne occorrerebbero -  una per ogni opera, rifinita o incompleta - per fissare le tappe di questo spirito cercatore e ognora scontento che imbocca ogni via per la realizzazione dei suoi fantasmi d'arte, che chiede alla tavolozza impasti non dettati da alcuna scuola. Che se una scuola avesse egli seguito, non intesa come dettame inerte d'accademia ma come regola d'arte creata dal suo spirito stesso e atta a improntare di stile personale tutta una produzione d’opere, il Gandolfo avrebbe fissato compiutamente, e in complesso più armonico, l' indole dell' arte sua. La quale, come andiamo vedendo, ha sprazzi di luce vivida e sempre nuova, ma non perenne.

L'artista compare e scompare continuamente e muta il suo profilo spirituale entro il volgere delle varie pause, sii che a volte non lo riconosciamo. Da un quadro all'altro si trasfigura o si abbandona. A volte, dopo uno studio mediocre, appare, nella serie discontinua, l'opera d'arte compiuta in sè, densa di virtù liriche di colore e di massa; e se talora sentiamo sotto l' intenzione di un’ opera la ricerca cerebrale che caratterizza il tentativo, acuto ma non dirompente da uno stato di intimo, lirico perturbamento, tal' altra l'opera completa ci balza stranamente senza momenti stilisticamente preparatorii.

In genere negli artisti intuiamo, attraverso un disegno o una serie di schizzi, o di quadri che la preannunziano, l'opera definitiva che in sè assomma ed esalta le qualità di essi, e segna una via progressiva dall' improntato al profondamente pensato, dalla favilla alla fiamma; troviamo insomma un filone di storicità che mostra le varie tappe dello spirito preso nel suo fervore di creazione: gli schizzi a sanguigna o a penna che il Callot traccia e coi quali individua i pitocchi, i ciurmatori, i venditori ambulanti, sono la trama, la chiave tematica di quel che poi saranno le figure che popoleranno le grandi acqueforti del geniale lorenese: questi schizzi sono preparazione ideologica a un tempo e preparazione stilistica.

In Gandolfo, niente di tutto ciò; niente preparazione, niente spunti, orientamenti stilistici da svolgere e perfezionare: l'artista catanese cambia stile - cioè tecnica, cioè mezzo immediato di creazione - senza opere di transizione. Non obbedisce il Gandolfo a un imperativo estetico di moda o di scuola: l'opera sua sgorga direttamente da un intuizione che non vuole evolversi. A volte è turbinosa, incomposta, a volte fiacca: talora sconvolge e perturba per la sua fosca originalità; e nel ritratto specialmente per il quale il catanese sa scendere a profondità nuove dell'animo umano, l'ispirazione si concreta spesso in un dipinto che contiene molteplici elementi di rara bellezza.

Pure, tra l'accalcarsi di forme varie che a volte - sebbene raramente -- risentono di un penoso ibridismo, al critico non proviene alcun senso di disordine. Nel casi infatti di quadri abbandonati incompleti perchè in essi l'artista non realizzò per intero il suo fantasma perseguito, l'opera o l'opera mancata non urta le altre, non si sovrappone: rimane, se mai, come un tentativo originale e staccato che non contraddice gli altri: il Gandolfo non ama tornare sui suoi passi quasi sempre - si esprima e dipinga fiaccamente o realizzi una forma eletta mirabilmente costruita colla sua ecclettica pittura a sovrapposizioni incorporee e a velature - non copia mai se stesso. Non dunque foga disordinata di creazione ma ricerca vibrata, respiro ampio di visioni sempre nuove, approcci verso fresche idealità sentite e alacremente perseguite con quella calma che la vita serena e semplice dettava all'artista: vita che, come già s' è detto, può  esser delineata da poche brevi notizie.

Antonino Gandolfo nacque in Catania il 28 ottobre 1841. Apprese i primi elementi del disegno dallo zio Giuseppe Gandolfo, valente pittore della scuola neoclassica. Nel 1860 si reca a Firenze dove frequenta per pochi mesi lo studio di Stefano Ussi, notevole più per una borsa di studi lasciata che per il troppo celebre quadro "La Cacciata del Duca d'Atene"; ma rimase un autodidatta e un solitario; geloso della sua personalità, si tenne sempre lontano dalle accademie, dalle chiesuole artistiche, dalle formule e dal preconcetti di scuola. Visse a Catania dove mori il 21 marzo 1910. La sua vita non ebbe nulla di straordinario: fu la vita di un buon padre di famiglia, di un operoso artista, di un amorevole maestro.

Spesso, fra il pullulare abbondante dei dipinti del Gandolfo, lo studioso perde il filo di storicità spirituale che va ricercato in ogni artista creatore. Entro certi limiti fittizi, possiamo però inquadrare le opere cosi, all'ingrosso, secondo lo stile del quale sono materiate, per cercare di vedere a una a una le più eminenti, quelle che formano la parte ognor viva della pittura gandolfiana. La quale tocca a volte culmini di bellezza che fanno del Catanese un artista ben degno di rappresentare la Sicilia dell' Ottocento più che non possano i leccati suoi contemporanei e conterranei di fronte al quali il Gandolfo - pur discontinuo ed ineguale - estolle la sua figura di scrutatore d'anime; poi che col ritratto e con quelli che egli chiama « studi » sa scendere nelle latebre dell'anima delle figure che popolano le sue tele, fissandone col tocco di luce la massa fisica del volto e l'attimo psichico intimo, essenziale, eterno.

Nell'opera gandolfiana - s'è già detto - manca quel filo progressivo di storicità spirituale per il quale, in genere, un'opera appare quasi come svolgimento logico di convincimenti teorici precedenti, di intuizioni, di commozioni vibrate che si presentano allo stato embrionale in forme d'arte precedenti, tra le manifestazioni dell'artista.

L' annullamento quasi totale però, di questo filo storico dello spirito dell' artista, che è lo stile immanente, cioè l'individualità stabile dell' artista stesso, avviene sopratutto negli ultimi tempi, quando Gandolfo varia la tecnica e la concezione di impostamento delle masse cromatiche, da ritratto a ritratto: pare che ogni viso che egli fissa col pennello porti uno sconvolgimento totale nel suo stile di pittore. Solo cosi si spiega un diverso adattamento di tecnica per ogni viso, una diversa costruzione di piani, di parti in luce, di assieme, per ogni singola figura.

Nel primi tempi, invece quando ancora il ritratto non ha esercitato quell'attrazione che lo avvilupperà in seguito, egli mostra note caratteristiche comuni a tutti i dipinti antecedenti al 1880. Caratteristiche che sono rappresentate da due elementi concorrenti e inevitabili appunto perchè l'artista vi si regge nella creazione dei lavori giovanili e di essi imbastisce i suoi dipinti: elemento primo la moda del quadro sociale che la pittura dell'ottocento slavò oggettivandolo realisticamente in rappresentazioni fredde, o accalorandolo senza fiamma alla luce scialba di un soggettivismo romantico, senza mai raggiungere quella realizzazione d'arte che in altro campo eternò Giovanni Verga nel suoi “vinti”; e il tipo di moda il Gandolfo svolse approfittando di quelle cognizioni accademiche di disegno che si vedono attuate nelle opere: «L'ultima moneta», «L'usuraia», «L'espulsa», «Proletari». Di mano in mano che la pratica d'arte renderà il Gandolfo padrone assoluto di quelle regole che vanno presupposte in ogni artista di certa statura, la qualità del dipinto imposta dalla moda del tempo cadrà come scoria e quello che era virtuosismo di disegno del quale il Gandolfo si compiace dettagliando con minuzia ne « L'usuraia », sparirà per dar luogo a forme in cui il disegno è sottinteso ed è per l'artista non fine ma mezzo incluso - a volte abilmente taciuto e mascherato fra la ridda degli impasti corporei di colore - per rappresentare la realtà interiore che l'artista ha intuito e vuole materiare di colore. 

Pur dipingendo in questo primo periodo con squadrature minute di disegno che a volte danno al dipinto una prospettiva e una linea anatomica quasi fotografiche - ed è minuzia accademica del malinteso disegno dal vero - il Gandolfo ha slanci vivaci verso una idealizzazione della realtà che raggiunge con una tecnica tutta propria, colle sue ombre liquide; egli trasporta il protagonista - come nel bozzetto per “L'espulsa” superiore al quadro rifinito - in un ambiente realisticamente reso, ma il protagonista - nel caso l'espulsa - è reso con mezzi pittorici tutt'altro che fotografici; e quella pastosità di colore e di contorno, quelle ombre liquide diffuse attorno al setto nasale e alle orbite, ombre irrazionali, ci guidano appieno nella realtà fantastica dell'artista e ci avvicinano con immediatezza a quanto egli ha compiutamente espresso col travaglio della linea e del colore.

Le prime opere del Gandolfo, e anche quelle che immediatamente precedono il periodo definitivo e completo dell'arte sua in cui si dà al ritratto, vogliono essere realistiche, ma a scrutarle, si vede come il realismo sia esteriore e non intimo. La tecnica del dipinto “L' usurala” è fotografica; ma l'intellettualismo letterario che pervade questa e le altre opere dello stesso ciclo, l' “Ultima moneta”, “Il compenso", "I proletari" e molti dipinti concepiti dopo il 1880, mal si accordano e fondono nella loro nebulosità moraleggiante, predicatoria e romantica con la tecnica stessa che per esser realistica è gelida, pedante, e impastoia, smorza, affioca ogni impeto lirico che si dovrebbe effondere dalle figure. Sono opere, però, che il critico deve guardare con rispetto e, per un certo senso con ammirazione: esse rappresentano, se pur slegate tra loro, delle tappe che con genialità di autodidatta toccava il Gandolfo con arte non ancora bastantemente materiata di esperienza pittorica. Come nell'opera verghiana, "Tigre reale", "Storia d'una Capinera", rappresentano materia morta e ben lontana dall' armonico, geniale costrutto de "I Malavoglia" e di "Mastro don Gesualdo", cosi la produzione gandolfiana che precede i bozzetti impressionisti e i ritratti - se ben commendevole presa in sé - è assai lontana dalle altezze che Gandolfo raggiunge in queste due forme d' arte pittorica già enumerate.

Non è questa una rassegna catalogica dei dipinti dell'eminente dimenticato: epperò ho voluto dare un lineamento generale dell'opera pittorica del catanese sì che ognuno possa avere un punto di riferimento nello sceverare per godere dei dipinti mal noti a Catania ma lodati da poeti scrittori e critici quali Carducci, De Roberto, Fleres, Capuana, Stiavelli.

“A questa nobile inquietitudine, a questa dolorosa vibrazione dinanzi agli spettacoli della miseria e del dolore ed alla maestria della tecnica nel riprodurre la forma umana in ciò che essa ha di più espressivo, nel volto, il Gandolfo aggiunge spesso un'altra qualità tutta sua: uno stile, un magistero, un mistero per virtù dei quali alcuni suoi episodi pittorici, suggestivi come musiche, sembrano distaccati da non so quali antiche tele di vecchi gloriosi maestri”. Cosi Federico De Roberto profilava il carattere dell'arte del Maestro dicendo degli artisti alla seconda esposizione agricola Siciliana.

Arrivano oggi a Venezia, a Roma, quadri d'ogni dove; e vi trova posto compiacente, accanto a opere degnissime, il quadro di un abberrato pittore tedesco, la bizzarria cromatica di un russo dal gusto inguaribilmente deformato. Vi si fa anche qualche mostra retrospettiva che a volte rinsangua l'anima stanca dell'appassionato del bello. Quando vedremo figurare tutta l'opera pittorica di Gandolfo, luce vivida di Sicilia, fra le ariose e affollate sale d'una grande esposizione retrospettiva ?

Qualche studio è per le case dei collezionisti. In tali studi Gandolio si afferma un poderoso vivisettore di anime, un tecnico perfetto della pittura ad olio che egli tratta con una pastosità strana, con una larghezza di luci diffuse e lievi da far pensare spesso agli acquerelli di Paolo Sala o al moderni soavissimi acquarellisti londinesi. Nè Conconi, nè Cremona sono presenti col loro impressionismo al Catanese ribelle a ogni dettame, a ogni imitazione. Specie nel ritratto chiede alla tecnica materiale effetti che a volte fanno pensare al Mancini. E ogni opera, una tecnica nuova, una concezione cromatica originale, un gioco di mezzetinte e di luci tangenti strabilianti. Dal mirabile «Ritratto di Monaco» dei Benedettini, saldo, stagliato e possente entro luci diffuse e tangenti, passiamo all' impressionismo stranamente ombreggiato e sintetico dello « Studio di testa muliebre». Dal morbido «Cieco», alla testa densamente impostata dell' incisore Di Bartolo, eccoci alla testa del Medico Tomaselli che pare profilata, disegnata con un rasoio e armonizzata entro una gamma vivace e robusta di colore ben confacente alla secchezza di linea.

Il "ritratto di donna" degli eredi Marchese è, a mio modo di vedere, una delle più alte manifestazioni ritrattistiche del Gandolfo che nel bozzetto è artista vivace, fresco nervoso; nel ritratto è artista, è pittore dovizioso di tutti gli attributi che bastano a farne il più eletto rappresentante del ritratto nell'arte siciliana del secolo scorso.

 

Enzo Maganuco

 NOTA BIBLIOGRAFICA

G. MANZELLA FRONTINI, La mostra Permanente al Circolo Artistico di Catania, Corriere di Catania, 23 dic. 1906;

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CORRIERE DI CATANIA, Antonino Gandolfo, Articolo editoriale sul numero dei 23 marzo 1910;

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CONDOR, Il pittore A. Candolfo, La Sicile Illustrée, Palermo VII, 1910;

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F. GUARDIONE, Memorie d'Artisti di Catania, N. Giannotta, Catania 1914;

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V. M. NICOLOSI, Un pittore dimenticato, Il Mondo, Roma, 17 marzo 1922.