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Stampe, Luoghi, Antiche Zecche, Personaggi Illustri di Catania

Giuseppe Gandolfo

 

nacque a Catania il 28 agosto 1792, l’unico di sette fratelli che manifestò, già da piccolo, tendenza verso la pittura.

Disegnava paesaggi e figure di fantasia ovunque gli capitasse: su fogli, sui muri, sul tavolo e questi schizzi erano talmente ben eseguiti che chiunque avrebbe capito che, se adeguatamente guidato, l’autore avrebbe potuto diventare, un artista di tutto rispetto.

Tutti, infatti, lo capirono, ad eccezione del padre, che lo indirizzò verso lo studio delle umane lettere per le quali il giovane Giuseppe non nutriva alcun interesse e che seguiva svogliatamente.

Il padre, deluso, lo avviò quindi all’arte orafa e del cesello. Attraverso questa strada forse avrebbe potuto inoltrarsi in qualche modo nel mondo  dell’arte, se non avesse avuto un maestro poco incline all’insegnamento e di vedute ristrette.

Nel contempo, cominciò a seguire la scuola di disegno di Matteo Desiderato[1], che lo istruì anche sui  fondamentali della pittura.  Di Desiderato però Gandolfo confesserà nelle sue memorie, come le sue lezioni fossero legate ad una scuola troppo formale e affettata, difetti di stile, questi, che egli stesso, con molta fatica, riuscì in seguito a correggere.

Tuttavia, nonostante che il cesello fosse per lui un ripiego, fu apprezzato in quest’arte tanto che molte signore dell’alta borghesia cittadina si adornarono dei suoi diademi e monili.

Fidando su questo, a 20 anni, il padre gli acquistò un negozio e lo sostenne con un notevole investimento finanziario nella speranza che divenisse un abile orefice. Ma il Nostro proprio non era tagliato per il commercio e, nel giro di poco tempo, riuscì a dar fondo al capitale affidatogli.

Il padre, esasperato, gli tolse quel poco che gli era rimasto e preferì mantenerlo. Giuseppe, tuttavia, trascurando gli insuccessi negli altri campi, continuò caparbiamente a dipingere.

In questo periodo volle cimentarsi per la prima ed unica volta nella scultura. Essendo, in quel periodo molto amico di Domenico Tempio, dopo aver fatto il  busto del Poeta in creta, ne fece la fusione in bronzo e il risultato fu così sorprendente che egli stesso preferì tenerlo nel suo studio tra le cose più belle.

Anche Tempio dimostrò di apprezzare in grande misura l’opera del Nostro e gli dedicò un epigramma:

 

         “A DON GIUSEPPI GANDOLFU PRI AVIRI FATTU ALL’AUTURI UN PICCULU BUSTU DI BRUNZU

Vui ccu lu brunzu, caru Don Giuseppi,

E lu medicu a pinnuli e gileppi,

viu li vostri ‘mpegni quali sunnu

Di mandarmi, cioè all’eternità.

Vui in chista terra, e chiddu all’autru munnu.

Lu medicu però fra chianti e lutti,

Comu la duna a mia la duna a tutti,

La vostra eternità vinci la morti,

E pochissimi su ch’annu sta sorti”[2]

 

 

A dare una svolta a questa situazione di stallo sopravvenne una tormentata e infelice relazione sentimentale che lasciò il pittore prostrato. In questo difficile passaggio della sua vita Giuseppe  tentò invano di farsi finanziare dal padre gli studi a Roma.

Furono momenti molto tristi per il nostro  artista, che trascorreva il suo tempo conversando con gli amici, testimoni della sua amarezza. Solo il loro accorato intervento e un dipinto singolare convinsero in fine l’ostinato genitore a lasciarlo libero di seguire la sua strada. Il dipinto rappresentava il padre che, con un effetto bancario in mano, guardava il mare sul quale, in una nave lontana, era il giovane imbarcatosi per Firenze.

 A Roma Giuseppe, con una lettera di presentazione di monsignor Ferro, si mise sotto la guida del celebre Giuseppe Errante[3], che lo accolse benevolmente.

Dopo aver seguito per quasi un anno gli insegnamenti dell’illustre Maestro, acquisite delle buone basi, si spostò a Firenze dove frequentò la scuola di Pietro Benvenuti[4].

Questi lo annoverò tra i suoi migliori allievi e Gandolfo fece, sotto la sua guida, enormi progressi sia nella sintonia dei colori che nella precisione del disegno.

Grazie al suo maestro, ebbe modo di conoscere il ministro del Granducato di Toscana Opizzone che gli schiuse le porte del palazzo Pitti e della galleria degli Uffizi.

Il contatto con i capolavori dei più illustri geni del Rinascimento infervorò il Gandolfo che prese a fare le copie dei quadri che più lo avevano colpito. Così inizia la sua ricca attività; risorsero dalle sue mani La Madonna della Seggiola, il Galileo Galilei, la Fornarina, il Leone X , la Poesia, la Visione di Ezechiele, l’Addolorata. Tutte queste riproduzione furono riunite in una mostra che suscitò l’ammirazione di tutti gli artisti di Firenze.

Lo stesso Benvenuti non lesinò le sue lodi e un giorno, nei salotti del Granduca di Toscana, ebbe a magnificare il rifacimento del Leone X, asserendo che, mentre prima, di questo ritratto, il cui originale era stato dipinto da Raffaello Sanzio ed esposto a Palazzo Pitti, esisteva solo la copia di Napoli, eseguita da Andrea del Sarto[5] , adesso vi era da annoverare anche quella di  Gandolfo, che nulla aveva da invidiare ai predecessori.

Anche il ministro Alessandro Opizzone lo tenne in grande considerazione, lo munificò  di doni generosi e  lo presentò al Granduca, dal quale fu accolto a corte con tutti gli onori.

Tale era la sua fama, che un ricco collezionista gli propose di acquistare le sue opere, ma il pittore rifiutò i lauti guadagni, preferendo donare le tele al Comune di Catania ed al padre.

A quest’ultimo riservò il Leone X, la Fornarina, il Galieleo Galilei e la Madonna della Seggiola, che furono esposte in una mostra con enorme successo. Ancora una volta la malignità di alcuni, insinuando il sospetto che fossero stati dal padre acquistati da insigni pittori per dare lustro al figlio, ne mise in dubbio l’autenticità. Insinuazione che mal si adatta a quanto diremo in seguito.

Avvenne infatti che un Ministro inglese, rappresentante della corona britannica alla corte fiorentina, incaricato dal suo governo di acquistare delle copie dei capolavori esistenti nei musei di questa città, venuto a conoscenza delle doti di Gandolfo, gli affidò  l’importante incarico  con la promessa di un generoso  compenso.
Giuseppe avrebbe accettato l’oneroso ufficio, ma il Granduca, che non voleva che si occupasse di altre commesse, lo colmò di generosissimi doni affinché rimanesse a lavorare in esclusiva per lui.

Dipinse quadri per la pinacoteca del Cardinale Carlo Opizzone, fratello del ministro del Granduca, altri per il ministro stesso, ed altri ancora per nobili famiglie fiorentine, quando la notizia della morte del padre lo spinse a rientrare in patria.

Nel 1821 lasciò Firenze, diretto a Roma per rivedere Errante, il suo vecchio Maestro, ma, attraversando le paludi pontine, si ammalò seriamente. Guarito dalla grave affezione, riprese il viaggio e giunse a Catania ad abbracciare i suoi cari, gli amici e a curare le proprie questioni di eredità.

Una lettera del ministro Opizzone lo fece ritornare a Firenze. Qui, riprese le sue abituali attività artistiche, quando una nuova malattia lo ridusse quasi in fin di vita. Fu amorevolmente assistito dai medici di Corte e, quando guarì, gli fu consigliato di ritornare a Catania per respirare un’aria meno nociva per la sua salute.

Nella città etnea, Giuseppe, convalescente ed in preda ad una profonda crisi depressiva, attraversò un lungo periodo di abulia. Non riusciva a riprendere in mano il pennello, salvo che per alcune opere di scarso valore, nonostante i continui inviti degli amici che volevano scuoterlo dal quel torpore creativo.

Solo lo scherzo di un gruppo di amici (Salvatore Platania, Antonio Battaglia, Salvatore Giunta, Antonio Distefano, Giuseppe, Francesco e Antonio Mirone), lo motivò a reagire. In risposta  volle dipingerli, vestiti con abiti dimessi, dentro una taverna, come qualsiasi altro losco figuro  frequentatore di locali malfamati dell’angiporto. Avrebbe voluto esporre la tela in una mostra, quasi una gogna, senonché Giuseppe Mirone riuscì a farla scomparire dallo studio dell’artista, che, ancora una volta, rimase beffato. Non si perse d’animo e, armatosi nuovamente di pennello e colori, dipinse Emmanuele Rossi, Mario Musumeci, Carmelo e Salvatore Platania, Carlo Gemmellaro, il canonico Alessi, Benedetto Barbagallo, Carlo Zappalà Giuffrida Moschetti, vestiti da monaci, seduti attorno ad un tavolo, davanti ad un piatto di minestra e di pane nero. In questo quadro, Giuseppe Mirone, Giuseppe Distefano, Giovanni Fasanaro e Salvatore Distefano, dal pittore ritenuti i maggiori responsabili dello scherzo, furono rappresentati in ginocchio, mentre mangiano per terra assieme ai gatti. Si dipinse egli stesso in mezzo ai frati quasi ad ammonirli che non facessero più scherzi da lui ritenuti poco opportuni.

Il quadro fu esposto in pubblico ed ebbe un enorme successo di critica, tanto che il Comune volle acquistarlo per esporlo in una delle sale del Palazzo di Città.

Queste ultime due opere, per quanto a soggetto satirico, ridiedero nuovo slancio alla vita artistica del Gandolfo, che, da allora, non smise più di dipingere.

Fondò a Catania una scuola, che fino a quel momento mancava nella città, e, ormai contornato da chiara fama, fu ambito autore di ritratti di molti esponenti dell’alta società e della cultura etnea. Tra i suoi soggetti vi furono anche paesaggi di mirabile fattura e, perfino, l’eruzione dell’Etna del 1852. Negli anni a seguire si dedicò all’insegnamento (suoi grandi discepoli furono Salvatore Zurria e Nunzio Licciardello), oltre  a dipingere una cospicua quantità di opere pittoriche destinate ad ornare le case patrizie e le maggiori raccolte del Regno delle Due Sicilie.

Purtroppo, una malattia, questa volta mortale, lo colpì nel pieno della sua attività, all’età di 63 anni.

Giuseppe Gandolfo morì il 13 settembre 1855, compianto dalla sua famiglia, dagli amici e da tutta la cittadinanza.


[1]    Matteo Desiderato. Pittore (Sciacca ? – Catania 1827)
[2]Salvatore Brancaleone. Discorso su la Vita e su  le Opere di Giuseppe Gandolfo (sic!) per Salvatore Brancaleone. Tipografia del Reale Ospizio di Beneficenza. Catania, 1856, pag.8
[3]   Errante, Giuseppe. – Pittore (Trapani 1760 – Roma 1821). A Roma ottenne la protezione di A. Canova e si foggiò uno stile classicheggiante eclettico sull’esempio di quello di R. Mengs. Nel 1791 ricevette dalla corte di Napoli l’incarico di decorare il Palazzo Reale di Caserta. Per cause politiche si recò nel 1795 a Milano, e per molti anni vi svolse una larga attività, favorito dal viceré Eugenio di Beauharnais (quadri mitologici, ritratti, allegorie napoleoniche, ecc.). [http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-errante/]
[4]Benvenuti, Pietro. – Pittore (Arezzo 1769 – Firenze 1844) esponente della pittura neoclassica toscana. Studiò a Firenze e a Roma, dove frequentò A. Canova e V. Camuccini. Dal 1804 fu direttore dell’Accademia di belle arti di Firenze e pittore della corte toscana. Opere a Firenze (palazzo Pitti: affreschi nella Sala di Ercole; S. Lorenzo: affreschi nella cupola della cappella dei Principi; Gall. d’arte moderna: Giuramento dei Sassoni a Napoleone); Arezzo (duomo). Fu buon ritrattista (Elisa Baciocchi e la sua corte, 1813, Versailles). [http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-benvenuti/]
[5]Attualmente la copia di Papa Leone X con due cardinali si trova esposto al museo di Capodimonte